Sassari. Venerdì 24 gennaio, alle 15, al Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Sassari (Aula Mossa) si parlerà di Fabrizio de André e della sua concezione della giustizia. Gian Paolo Demuro, ordinario di diritto penale del Dipartimento, introdurrà le due relazioni previste per l’incontro “De André e la giustizia”, nell’ambito delle lezioni della Scuola forense: la prima del penalista Giuseppe Losappio, dell’Università di Bari, la seconda di Tommaso Gazzolo, filosofo del diritto qui a Sassari.
L’iniziativa merita la nostra curiosità, per più ragioni. La prima è che essa testimonia della sempre maggiore attenzione che le canzoni di De André hanno trovato anche nella cultura “alta”, accademica. Che però siano i giuristi, oltre che i letterati, a interessarsi del cantautore, è in parte una novità. Ironia anche del destino, per certi versi: nelle aule di giurisprudenza, il giovane De André certo non dovette trovarsi troppo a suo agio, tanto che ricorderà anni dopo come la carriera di cantautore lo avesse salvato dal diventare un «pessimo avvocato», laddove suo fratello, Mauro, enfant prodige dell’avvocatura genovese, diverrà uno dei più noti professionisti nel settore del diritto commerciale.
E tuttavia, è difficile, per un giurista, non sentire un’aria di famiglia, nelle canzoni di De André, nelle quali la legge e la giustizia non smettono di venire in gioco, in una riflessione che oppone, costantemente, la giustizia della legge, la giustizia che giudica e condanna, alla giustizia come pietas, estrema “pietà” che non ha nulla a che vedere con il sentimentalismo o il moralismo, ma consiste in quel rispetto che si deve a ogni vita, a ogni storia personale, qualunque essa sia e qualunque cosa abbia fatto, anche – e forse soprattutto – quando essa si è ormai persa, condannata da sé. Ecco che da una parte avremo allora i giudici che condannano per vendicarsi della loro statura (Un giudice), uomini di legge che non sanno che applicarne la lettera, perdendo lo spirito (Il testamento di Tito), vecchie beghine che danno buoni consigli solo perché non possono più dare il cattivo esempio (Bocca di rosa), preti che rifiutano la sepoltura ai suicidi (La ballata del Miché).
È il giudizio. A cui De André contrappone la giustizia, la quale – come dicevamo – è il contrario del giudicare, perché consiste nel lasciar essere la vita per come essa è, quale che sia: i ladri, gli assassini, «se non sono gigli / sono pur sempre figli / vittime di questo mondo» (La città vecchia). Non sono innocenti, non sono eroi – il gusto un po’ “scapigliato”, provocatorio, maudit del primo De André lascerà presto il posto ad una poetica più complessa e raffinata della comprensione per l’altro. Se la sua canzone è sempre rimasta fedele all’ammonimento «che la pietà non vi sia di vergogna» (Recitativo), essa, negli anni, ha percorso modi più sfumati di rendere giustizia alle vittime ed agli ultimi: ma come non provare pietas per Teresa, «figlia di droghieri», ed alle sue illusioni riminesi (Rimini) o per l’innamorato di Dolcenera che, come De André ha raccontato, in realtà è intrappolato nel suo sogno di vedere arrivare la donna che ama, mentre lei invece sta annegando?
Si capisce bene, allora, perché, oggi, i giuristi ascoltino e discutano De André: perché la sua concezione di una giustizia senza giudizio, di una giustizia che è l’opposto del giudicare, pone anche e soprattutto loro di fronte a interrogativi e problemi che il diritto ha sempre cercato, tradizionalmente, di non vedere, di occultare. De André, più di ogni altro cantautore, si è mantenuto fedele a questa idea. Non solo: l’ha vissuta personalmente. Non possiamo non ricordare le vicende del suo rapimento, qui in Sardegna. De André, come si sa, perdonò i sequestratori: «ho scelto di perdonarli perché, potendoci fare del male, hanno scelto di trattarci bene», spiegò, aggiungendo: «li osservavo durante il sequestro, e pensavo che i veri sequestrati in realtà fossero loro». Va detto che, all’epoca, il suo atteggiamento fu largamente criticato: «vittima della sindrome di Stoccolma», «snob viziato», «borghese ricco e capriccioso», si disse di lui.
Ma De André non faceva che vivere le idee che aveva sempre avuto, come del resto L’Indiano, l’album che di quell’esperienza è diretta conseguenza, rivisiterà poeticamente il tema dei sequestratori sequestrati attraverso le corrispondenze tra sardi e indiani d’America. Ma torniamo alla “giurisprudenza” di De Andrè. Se non smette d’essere d’attualità, se oggi anche i giuristi hanno deciso di confrontarsi con essa, è perché le sue domande interrogano ancora in modo radicale il nostro modo di comportarci, di vivere, di pensare: come è possibile essere giusti senza giudicare? In cosa consiste una giustizia che sappia non passare per il giudizio? Di queste, e altre questioni, si discuterà venerdì 24 gennaio, e poi ancora a lungo.