I testi raccolti in “Paesaggi insediativi, economici e sociali nella Sardegna basso-medievale”, di Pinuccia F. Simbula e Alessandro Soddu (Carocci, 38 euro) esplorano l’organizzazione del territorio e le dinamiche sociali e produttive nella Sardegna rurale e urbana dei secoli XI-XV. Non si tratta di una sintesi, quanto di casi di studio, di tessere esemplificative dell’evoluzione della società e dell’economia isolana.
Un percorso meno lineare di quanto spesso prospettato da schemi storiografici calati aprioristicamente su una realtà articolata, con molte sfumature istituzionali e politiche al proprio interno. Fortemente sollecitata dalle relazioni esterne che interagiscono con il mondo locale, l’isola assimila, elabora e adegua i modelli con i quali entra in contatto, con traiettorie ed esiti disomogenei.
Le riflessioni sugli assetti economici e insediativi, sulle gerarchie sociali e sui molteplici attori si snodano tra inquadramenti generali e microanalisi del territorio e della configurazione della società, dalle forme di organizzazione del potere alle reti di relazioni politico-istituzionali e commerciali che vi si intrecciano nel lungo arco cronologico sul quale i saggi si soffermano.
All’aprirsi del nuovo millennio, la formazione dei regni giudicali e le relazioni tirreniche avviano il reinserimento della Sardegna nell’Occidente. Il percorso passa per i rapporti con la Chiesa romana, le ondate monastiche e l’aggancio alle reti politico-commerciali pisane e genovesi. L’espansione demografica accompagna l’avanzata sull’incolto, la messa a coltura delle terre e lo sviluppo di aziende, le domos, alcune delle quali, grazie alle donazioni da parte dei giudici e delle aristocrazie locali costituiranno i nuclei originari dei patrimoni degli Ordini che si impianteranno nell’isola.
Dalla fine dell’XI secolo, Vittorini, Cassinesi, Camaldolesi e Vallombrosani si inseriscono in aree popolate, strategicamente produttive, dove meglio era possibile mettere a frutto le risorse agricole e razionalizzare lo sfruttamento delle risorse. Una colonizzazione spirituale ed economica, nella prospettiva dei giudici, funzionale all’inquadramento della popolazione sparsa nei tanti piccoli insediamenti residenziali e produttivi (le villas e le domos) che punteggiavano le campagne, dove convivono, non senza tensioni, liberi e servi.
È nei villaggi che in particolare si intercetta il processo di cambiamento sociale in atto, nella fisionomia di comunità segnate dall’emergere di un ceto di proprietari liberi, i páperos, che ricorrono nelle fonti di XI-XII secolo, prime avvisaglie dei mutamenti nei modi di conduzione delle aziende e della ripresa della piccola proprietà che meglio si coglie tra Due e Trecento.
A questi aspetti si raccordano i saggi dedicati alla regione della Nurra (nell’estremo nord-ovest dell’isola), un’area campione dove, a fronte delle testimonianze materiali estremamente labili, le fonti scritte consentono di tracciare l’evoluzione degli assetti insediativi. Più in generale, la relativa debolezza della trama umana punteggia le aree maggiormente produttive, senza dar vita a insediamenti di una certa robustezza o in grado di proiettare nel tempo effetti duraturi.
Un paesaggio, quello della prima età giudicale, che conosce una fase di incisivi mutamenti legati all’incastellamento duecentesco e allo sviluppo dei centri urbani che innescano una redistribuzione della popolazione. Dal XIII secolo, anticipando le sciagure demografiche trecentesche, non pochi villaggi scontano l’attrazione dei borghi castrensi e dei centri urbani in via di formazione che agiscono con forza nell’organizzazione del territorio. La selezione degli abitati accentua la polarizzazione della popolazione rurale sui centri maggiori e precede l’esaurirsi della spinta demografica e il successivo tracollo della popolazione seguito alle ondate di peste.
Il citato caso della Nurra non è isolato e sottolinea l’esigenza di sfumare la nettezza della crisi del XIV secolo come elemento determinante della riorganizzazione dell’insediamento, secondo uno schema rigidamente applicato nel quale si appiattiscono cause e cronologie.
Sotto il profilo economico, l’impulso dato dall’aggancio con i centri tirrenici salda l’isola alla rete dei traffici mediterranei. L’impatto della domanda esterna orienta la produzione di derrate e materie prime esportate via mare e traccia le direttrici dell’interscambio. Gli effetti sulle campagne sono evidenti: nel Duecento l’alta richiesta di grano spinge i proprietari delle aziende e i coltivatori alla conversione cerealicola delle campagne; incolto e terre vitate riconquistano spazio tra la seconda metà del Trecento e il Quattrocento, quando la ristrutturazione dell’habitat e i vuoti umani aprono ampi pascolativi e una sensibile ripresa del vigneto che si insinua anche in quelli che un tempo erano i principali distretti cerealicoli della Sardegna.
La razionalizzazione della produzione conosce una forte specializzazione con il trionfo dell’allevamento e dei suoi prodotti (dal pellame ai formaggi), nel tardo medioevo i principali beni dell’esportazione. Allo sfruttamento delle risorse naturali e delle materie prime si raccordano i saggi sul bosco e sul sale, quest’ultimo oggetto di una politica di rilancio nel tardo Quattrocento da parte di Ferdinando II d’Aragona all’interno di un progetto economico che prevede la gestione unitaria delle saline della Corona; seppure velleitario sul piano della concreta realizzazione, tale progetto rivela l’attenzione riservata alla capacità di assorbimento dei mercati locali che, dati alla mano, costituiscono una risorsa altamente tenuta in considerazione per assicurare i cespiti fiscali.
Quanto alle dimensioni dei traffici, a fronte dei circuiti maggiori e del grande commercio, emerge la consistenza dei microcircuiti e degli scambi interregionali, di cui quello tra Bonifacio e il Logudoro o, successivamente (tra Tre e Quattrocento), con la Sicilia e il regno di Napoli costituiscono esempi di integrazione sia per vitalità che per durata, creando reti in grado di superare le barriere politiche e nazionali.
I contributi raccolti nel volume – pensato come uno strumento didattico – sono presentati nella loro autonomia, offrendo in questo modo altrettanti punti di osservazione della realtà sarda, calata nei più ampi processi generali.
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Alessandro Soddu insegna Storia medievale presso il Dipartimento di Storia, Scienze dell’Uomo e della Formazione dell’Università di Sassari. La sua attività di ricerca è prevalentemente concentrata sulla Sardegna del basso Medioevo in relazione con un ampio ventaglio di soggetti dell’area mediterranea, di ambito italiano (Pisa, Genova, famiglie signorili ed enti ecclesiastici e monastici di Liguria e Toscana) e iberico (Corona d’Aragona). Il suo approccio metodologico è multidisciplinare e privilegia i temi dei poteri signorili, dei processi e delle forme dell’insediamento urbano e rurale, così come anche quelli delle strutture economico-sociali e delle trasformazioni politico-istituzionali intervenute tra Due e Trecento, con particolare riferimento alla dialettica tra città e Corona.
Pinuccia F. Simbula insegna Storia medievale presso il Dipartimento di Storia, Scienze dell’Uomo e della Formazione dell’Università di Sassari. Le sue linee di ricerca riguardano problemi di storia politico-economica, sociale e culturale nello spazio mediterraneo tra XII e XV secolo. Su questi temi ha approfondito aspetti connessi alla produzione e allo sfruttamento delle risorse economiche (commercializzazione delle materie prime e derrate alimentari, panni, corallo, sale con particolare attenzione alla Sardegna) e questioni sociali, culturali e materiali del mondo marittimo, quali il salariato del mare, la guerra di corsa, la cultura delle genti di mare, la cantieristica, l’evoluzione dei sistemi portuali nelle dinamiche degli scambi commerciali sul lungo periodo.