di Pier Luigi Rubattu
Più arrivi, più presenze, evviva! I conteggi sono cominciati prima di Pasqua, continueranno per tutta l’estate, più arrivi più presenze, l’economia cresce, la gente lavora. Ma alla fine staremo tutti meglio? Non è detto, ci avverte Cristina Nadotti con il suo saggio appena arrivato nelle librerie, “Il turismo che non paga” (Edizioni Ambiente, collana VerdeNero Inchieste, prefazione di Ferdinando Cotugno, 240 pagine, 19 euro).
Nadotti ha fatto le prime esperienze giornalistiche a Radio Sassari Centrale, ha scritto sulla Nuova Sardegna, dal 2000 ha lavorato a Roma al portale Kataweb, a Radio Capital e infine a la Repubblica, dove per più di vent’anni si è occupata di affari esteri, cooperazione internazionale, ambiente e sostenibilità. Vive tra Roma e Alghero, e ovviamente nel libro gli esempi sardi non mancano. La nostra isola, per quanto ci piaccia credere di essere unici, è perfettamente allineata alle dinamiche planetarie. Il turismo è a tutti gli effetti una “industria pesante”: stravolge i luoghi abitati e la natura; inquina con le emissioni dei mezzi di trasporto; fa esplodere la produzione di rifiuti; manda in tilt la sanità. E sta addirittura creando una nuova lotta di classe, quella tra residenti e vacanzieri.
Cristina, ma tu ti definisci turista o viaggiatrice?
“Potrei dire che sono viaggiatrice sin dalla nascita, visto che nei primi otto anni di vita ho cambiato sei città. Ho visitato più di cinquanta paesi: dalla Grecia, zaino in spalla con le amiche del liceo, alla Corea del Sud e al Brasile negli ultimi mesi. Ma ammetto di essere pur sempre una turista”.
Riformulo la domanda: esiste la contrapposizione tra il vero viaggiatore – colto, sensibile, pulito e possibilmente danaroso – e il turista superficiale, frettoloso, un po’ cafone e con le tasche semivuote?
“Direi di no. Il dato di fatto è che sempre meno persone si possono permettere viaggi di qualità. Allora molti fanno le piccole gite che agli imprenditori turistici non piacciono, perché non c’è l’hotel, non c’è il ristorante… il cosiddetto turismo mordi e fuggi. Ma io rivendico la libertà di spostarsi, di mangiare un panino seduti sulla scalinata di piazza di Spagna. Dove la cartaccia la butta più il romano del turista. È come per le spiagge in Sardegna. Ad Alghero ho dei vicini di casa continentali che hanno un impegno nel preservare Maria Pia che io non ho, li vedi litigare con la gente che passa sulle dune”.
Il libro è documentatissimo, sei andata a scovare studiosi che si occupano da decenni di turismo, ma si lamentano di non essere ascoltati dalla politica e dalle istituzioni. Tra i luoghi comuni che metti in discussione c’è il peso che l’industria turistica ha sull’economia di un territorio.
“Si sente dire che il turismo in Italia vale il 13 per cento del Pil e può essere anche vero. Ma a parte che il Prodotto interno lordo non misura necessariamente il benessere delle persone, quando si parla di turismo il calcolo del Pil è complicato. Per esempio: io sono residente ad Alghero, ci sto in inverno e ci sto in estate. In estate faccio quasi tutte le cose che fa chi è in vacanza: vado al supermercato, al ristorante… Quella spesa come la calcoli: è da turista? E le spese dello stagionale che lavora al noleggio auto, come le conteggi? Inoltre, se parliamo semplicemente di ciò che viene venduto e comprato, il grosso dei profitti va a imprenditori che solo in minima parte stanno in Sardegna. Se invece parliamo della moltitudine di lavoretti precari, non si tratta di attività che cambiano il tessuto economico o incidono sulla qualità della vita. Però vogliono farci credere che si può vivere solo di turismo”.
In Sardegna è un’idea diffusa.
“Il progetto della Regione mi sembra chiaro: vogliamo il turismo d’élite, non quello povero. Ma se per disciplinare il turismo pensiamo che debba diventare soltanto una cosa per ricchi, non ci sto”.
Però alla fine del libro segnali il rischio che mandrie di turisti inconsapevoli e incontrollabili si muovano di qua e di là su indicazione di influencer come la tizia che usando TikTok ha fatto arrivare centinaia di pullman a Roccaraso.
“Un tempo leggevi le riviste di viaggi, oggi basta uno scroll sui social, vedi la foto di un posto e dici: voglio andare lì. E finisce come a Bologna con i turisti che fanno la fila per comprare i panini con la mortadella. Ma i social acuiscono una tendenza già esistente. Il turismo l’hanno sempre narrato gli imprenditori del settore. Della Sardegna vedi le foto del mare cristallino, delle spiagge bellissime, poi vai alle fiere e c’è qualcuno che dice: “Dobbiamo valorizzare il territorio, i siti archeologici…”. Benissimo. Peccato che nessuno li conosca perché – ripeto – di turismo si occupa chi lo sfrutta a fini commerciali. L’influencer di Roccaraso è un’ulteriore estremizzazione. Ma perché si è parlato tanto di Roccaraso, dove comunque di autobus ne arrivano in continuazione? Perché c’erano i turisti poveri”.
Appunto, nel tuo libro è tutta una lotta di classe. Il turista abbiente e quello squattrinato. Il lavoratore stagionale spremuto fino al midollo da chi vuol massimizzare il guadagno in poche settimane. Gli abitanti dei centri storici stufi dell’invasione dei nuovi “vicini” targati Airbnb.
“La guerra residenti-turisti è un fenomeno enfatizzato. Ci sono piaciute tanto le ‘ribellioni’ di Barcellona con le pistole ad acqua, in realtà la gente non ce l’ha con i turisti, non vale la pena. Bisogna prendersela con un sistema che non va. Siamo tutti turisti, a turno. Il problema è che confondiamo l’idea di libertà con quella di non avere limiti. Ma non possiamo aspettarci che questi limiti li ponga l’industria turistica. Deve metterli la politica”.
Quali? Tu stessa spieghi che il numero chiuso funziona poco e male.
“Il limite è capire esattamente che cosa il tuo territorio può dare. Il limite è Ezio Aliani, del campeggio di Valledoria dove ho lavorato da universitaria, che poteva ospitare cinquemila persone, ma diceva: ‘Ne metto mille di meno perché se no stiamo male tutti’. Ad Alghero, secondo i dati che mi ha fornito l’assessore regionale Franco Cuccureddu, aumentano le presenze ma cala il numero degli occupati. È la conferma che un’economia basata solo sul turismo non può esistere. Ribadisco: il numero chiuso non funziona. Ma bisognerà trovare un modo di gestire i flussi”.
Come è nata l’idea del libro?
“Con mio marito stavamo facendo un trekking in Corsica, era agosto, un caldo da morire. Abbiamo notato come un’isola da sempre refrattaria a certe colonizzazioni fosse ormai piegata ai dettami del turismo di massa. Nei miei viaggi vedo da anni che quello che ci spacciano per eco-turismo non è assolutamente ecologico. Mio marito mi ha suggerito di parlarne dal punto di vista delle comunità ospitanti. E siccome le Edizioni Ambiente mi avevano già chiesto se avevo un’idea per un libro, ho potuto rispondere: sì, ce l’ho”.
Racconti la chiacchierata in autobus con una signora algherese affranta per il caos e l’invivibilità nei mesi estivi. Dedichi pagine all’inferno dei pendolari che viaggiano tra Civitavecchia e Roma o tra Firenze e Pisa e vengono praticamente schiacciati dalle orde dei turisti. Scrivi: ‘Dobbiamo consumare di meno se vogliamo imprimere una svolta all’industria turistica’. Sei per la decrescita felice?
“Il concetto di decrescita felice mi affascina, ma non ho gli strumenti per valutare se e quanto è praticabile. Auspico però una maggiore lentezza dell’esperienza turistica. Che cosa vuol dire consumare di meno? Ti faccio un esempio: l’ubriacatura da low cost. Un tempo poteva attirarmi l’idea di andare due giorni a Londra, ma oggi mi chiedo: perché? Che cosa starei facendo davvero? Il punto è questo: il turismo è una delle espressioni del consumismo capitalistico. Ci sono organizzazioni di categoria che legano direttamente le presenze turistiche agli acquisti. Cioè: la gente va nei posti per comprare. Anche se ormai trovi dovunque le stesse cose”.
Altro mito che nel libro provi a smontare: l’amenità del ‘borgo tipico’.
“Durante il lockdown tutti dicevano: andiamo a stare nei borghi. Certo, può esserci chi decide di stabilirsi, che so, a Ollolai. Non credo risolva il problema dello spopolamento. Per far vivere i borghi ti devi basare sulle attività che ci sono lì, fatte dalle persone che abitano lì. Ma se uno si innamora di un posto e va a viverci, rischia di essere un turista tutto l’anno. Quello è il buen retiro, la Florida, il Portogallo. È un’altra cosa. Nei piccoli paesi ci sono problemi di distanze, di servizi… Del tutto diversa è la creazione di un borgo turistico: in Italia abbiamo paesini totalmente ristrutturati a questo scopo, ma sono musei a cielo aperto, hotel diffusi. La gente abita altrove. Va nel borgo quando ci sono i turisti, apre il bar o il negozietto e quando ha finito se ne torna a casa da un’altra parte”.
‘Il turismo che non paga’ è un libro che un po’ fa disperare. Alla prova dei fatti ogni buona intenzione è destinata a degradarsi nel suo contrario. Lo si vede quando parli del tema che ti è più caro, l’ambiente. Il turista ‘ecologico’ sale sulla bici a pedalata assistita e invade i boschi più remoti. L’escursionista abbandona le mutande sporche in alta montagna. La tutela della biodiversità contempla il rischio di ritrovarsi con un orso a passeggio tra la folla.
“Il turismo cambia i luoghi a sua misura e vorrebbe che fossero sottoposti alle sue leggi e non a quelle della natura. E così l’orso non può fare l’orso. Nel parco nazionale d’Abruzzo i turisti si lamentano per la chiusura dei sentieri, che è sacrosanta sia per il benessere degli animali sia per l’incolumità delle persone”.
Sui social si leggono post disperati perché una spiaggia si è ritirata di qualche metro dopo una mareggiata e post esultanti quando si riallarga dopo un’altra mareggiata. Anche questo, in fondo, è vivere e pensare a misura di turismo.
“È un problema di percezione del tempo. La Pelosa, le Bombarde sono soggette alle leggi della natura, ma le vorremmo sempre identiche. Se non ci sarà l’innalzamento dei mari a causa del cambiamento climatico, magari la Pelosa più ampia potremo vederla tra qualche anno. In ogni caso, non quando la vogliamo noi”.