Vindice Lecis

di Pier Luigi Rubattu

Ciao Vindice, sempre comunista?
“Certo. Dal 1971, quando ho preso la prima tessera del Pci. Avevo 14 anni”.
Essere comunisti nel 2025 che cosa significa?
“Interpretare il mondo, credere che la storia non sia una concatenazione casuale di avvenimenti. Essere capaci di indignarsi, di mobilitarsi, di non stare alla finestra”.
Ventidue libri scritti in ventidue anni, tra romanzi, ricostruzioni storiche e inchieste. Comunista e stacanovista.
“La militanza nel Pci è stata una scuola fondamentale: studio, rigore, disciplina. Per ogni libro il lavoro preparatorio è enorme, vado negli archivi, stampo, fotografo, prendo appunti”.
Due romanzi in arrivo nel 2025.
“Sì. ‘La rivolta’ – che uscirà tra poco per Condaghes – è ambientato all’epoca della sconfitta definitiva di Pisa in Sardegna. A fine anno è in programma ‘Patriotas’, periodo 1796-1800, la fase più dura della repressione dei moti antifeudali e giacobini”.

Vindice Lecis, 68 anni, sassarese, giornalista. Più di trentamila copie vendute, più di cinquecento presentazioni durante le quali avrà firmato non meno di cinquemila dediche.

“Ci sono posti dove sono andato dieci/dodici volte e continua a venire un sacco di gente. Metto le foto su Facebook per far vedere che quando lo dico non scherzo”.
Hai lavorato una dozzina d’anni alla Nuova Sardegna, trentacinque in totale nei quotidiani del Gruppo L’Espresso. Il primo libro, “La resa dei conti”, l’hai pubblicato nel 2003, dopo vent’anni di carriera giornalistica
“Ero redattore capo a Pavia, dove nel dopoguerra c’erano state molte rese dei conti tra partigiani e fascisti. Avevo una documentazione su personaggi reali che ho pensato di far interagire con altri di mia invenzione”.
In quel periodo avevano grande successo le ricostruzioni di Giampaolo Pansa sulla guerra civile in Italia.
“Infatti l’agenzia Ansa in un suo pezzo lo definì ‘il libro dell’anti-Pansa’. Andai in giro a presentarlo e mi si accesero le lampadine: dappertutto scoprivo notizie, storie dimenticate e punti di vista che potevano diventare opere narrative”.
Per anni hai raccontato storie dell’Italia moderna. Nel 2011, con ‘Le pietre di Nur’, il primo tuffo nel passato della Sardegna.
“Mi sono reso conto che dal continente si vedono meglio le cose della Sardegna, la bellezza della sua storia. Ho visto pure che non ci calcola nessuno. E allora sono partito con il romanzo sardo. ‘Le pietre di Nur’, ‘Buiakesos’ ‘Il condaghe segreto’, ‘Iudikes’ hanno avuto un successo clamoroso, c’era voglia di azione e allo stesso tempo di precisione storica. Per esempio, si parla tanto del Medioevo sardo, ma pochi lo conoscono bene. Nell’isola i miei romanzi sono diventati long-seller, libri identitari che durano anni. Pochissimi sono andati fuori catalogo”.
Il romanziere deve avere la stessa curiosità del bravo cronista?
“Sì. Pensa alla città fondata dai sardi in Algeria, Rapidum. La conoscevano giusto pochi studiosi di storia romana. Io ci ho fatto un romanzo, ho costruito un’atmosfera cercando di non esagerare con l’archivismo e di non eccedere con la fantasia. Nell’Alternos, il mio libro più recente, personaggi inventati interagiscono con Giovanni Maria Angioy, che è reale. Ma che cosa sappiamo veramente di Angioy? Le carte ci dicono poche cose dal punto di vista personale. Non sappiamo neanche dov’è sepolto. Nel seguito dell’Alternos, che uscirà a fine anno…”.

Fermo, non spoilerarti da solo. Parlaci invece dell’altro tuo filone narrativo, i romanzi su vicende e personaggi del Partito comunista, da “Togliatti deve morire” a “La voce della verità”, da “L’infiltrato” a “Lotta al terrore”.
“Nella storia del Pci c’è anche la storia della mia famiglia. Mio padre, ragioniere al Consorzio agrario, e mia madre, casalinga, erano iscritti al partito. Dai documenti dell’Archivio di Stato ho scoperto che babbo per anni fu ‘attenzionato’ dall’Ufficio Affari riservati del Viminale, pur essendo un normalissimo militante di base. Io con il Pci mi sono formato nelle lotte studentesche alle superiori, poi sono stato segretario della Federazione provinciale giovanile di Sassari dal 1976 al 1980”.
I tuoi maestri di politica?
“Da ragazzo ho frequentato molto Salvatore Lorelli, un grande segretario di federazione, e Nino Manca, segretario generale della Camera del lavoro. Persone che non avevano ‘boria di partito’ ma costruivano, aprivano alleanze, rispettavano le diversità, anche se erano estremamente decisi e radicali quando necessario”.
Berlinguer?
“Dirigeva il Pci con una grande attenzione alle ragioni degli altri e con un’estrema solitudine nelle scelte decisive come il compromesso storico. E comunque il partito lo seguiva. Ma nelle tante celebrazioni berlingueriane ho trovato un limite: si parla molto della persona e poco del Partito comunista, che aveva un milione e 700mila iscritti. Il prestigio di Berlinguer era il prestigio di un partito che aveva avuto Gramsci e Togliatti, che era protagonista della storia repubblicana”.
Un ricordo personale?
“Nel 1979 c’erano le prime elezioni europee e io e una compagna abbiamo portato Roberto Benigni a Sassari per un comizio ai giardini pubblici. Siamo andati con la vecchia Simca del Pci a prenderlo all’Argentiera dove stava girando ‘Chiedo asilo’ di Marco Ferreri. Dopo lo spettacolo, la cena al ristorante Castello. A un certo punto bussano ed entra Berlinguer con il codazzo di dirigenti della federazione. Abbraccia Benigni che gli dice ‘Enrico, stavamo parlando male di te’, poi si mettono a chiacchierare del parroco di Stintino e di mille altre cose”.

Che Sassari era quella in cui facevi politica?
“Una città vivace, appassionata, con i movimenti degli operai e degli studenti, ma anche con tutta la violenza degli anni ’70: quella terroristica, quella squadristica fascista, quella di Autonomia operaia. Facevamo la politica, ma avevamo da fare anche altre cose più ‘concrete’…”
Scontri fisici?
“Personalmente mai. Ma come segretario ero vulnerabile, minacciato dai fascisti e da Autonomia. Mi ricordo un manifesto sul monumento in piazza d’Italia, una lista di gente ‘da sparare’: il mio nome era il primo. Naturalmente avevamo il nostro servizio d’ordine”.
All’epoca chi comandava a Sassari?
“La Democrazia cristiana era notevole, aveva personalità come Cossiga, Giagu, Soddu e governava il Banco di Sardegna. La capacità delle sinistre pluraliste di allora – comunisti e socialdemocratici, sardisti e socialisti – fu di metterla all’opposizione. Il Pci amministrò dal 1975 al 1980 con la prima giunta laica e di sinistra, sindaci Fausto Fadda e Franco Meloni. Ricordiamoci che Sassari nel 1946 aveva votato monarchia”.

Dopo l’impegno politico, partecipi a una svolta nel giornalismo italiano. Il Gruppo L’Espresso crea una catena nazionale di quotidiani, compresa La Nuova Sardegna, e nei primi anni ’80 il giornale di Sassari cambia radicalmente.
“Faccio una premessa. La Nuova ai tempi di Rovelli era omertosa e censurante sui temi del lavoro, tuttavia non ignorava i comunisti. Pietro Rubino era un capocronista moderato ma aperto, ho riletto un suo fondo contro i fascisti a Sassari e nemmeno io l’avrei scritto così duro. Ma la Sir possedeva L’Unione e La Nuova: era un monopolio inaccettabile. Carlo Caracciolo, l’editore dell’Espresso, e Mario Lenzi, il suo uomo di fiducia, portarono in redazione tanti giovani tra i 24 e i 30 anni e il giornale cambiò pelle: la nuova testata, la grafica, la titolazione, le edizioni locali…”
Tu cosa facevi in redazione?
“Le classifiche del calcio dilettanti. Poi ho iniziato a scrivere di sport e di cronaca. Ho vissuto il periodo più romantico e battagliero della Nuova Sardegna e mi sono abituato a un giornale ‘che le dà’. Il mio primo direttore fu Luigi Bianchi, ma la vera svolta la fece Alberto Statera, che arrivò dall’Espresso nel 1983. Io lavoravo nel settore Attualità. Un giorno il direttore mi chiama: ‘Vuoi fare carriera? Ti nomino capo a Oristano. È la zona più bianca della Sardegna, vendiamo quasi niente e contiamo nulla’. Dovevo inventarmi tutto e dare battaglia”.
Quanti anni avevi?
“Ventotto”.
A quell’età, oggi, nei giornali sei considerato un poppante. Ma andiamo avanti. È vero che quando sei arrivato a Oristano hai reclutato come corrispondenti tutti i segretari di sezione del Pci?
“Ma no, è una cavolata! I collaboratori erano in gran parte progressisti, è vero, ma c’era anche qualche democristiano. Gente valorosa e battagliera, io li caricavo e li difendevo. Abbiamo iniziato a fare più pagine, una cronaca molto aggressiva e ramificata. L’Unione Sarda viveva del notabilato dc dell’epoca e a un certo punto ha dovuto prendere atto che le notizie della Democrazia cristiana ce le avevo io. Quando sono andato via, nel 1989, vendevamo in provincia 4200 copie essendo partiti da quasi zero”.

Torni nella tua città per diventare capocronista, ruolo decisivo in un giornale locale.
“Il direttore Sergio Milani mi convoca e puntualizza: ‘Mi raccomando… Non è Oristano, è Sassari’. In città comandano in tre: Marco Fumi – sindaco della giunta di ‘pentapartito’ – per i socialisti; Piero Montresori per i democristiani; Nino Piretta per i sardisti. La Dc, guidata da Nino Giagu, controlla come sempre il Banco di Sardegna con il presidente e il direttore generale”.
Tu come ti organizzi?
“La prima cosa che faccio è andare a una mostra sul progetto di un enorme parcheggio-silo nel Fosso della Noce. Il sindaco mi vede e commenta ad alta voce: ‘L’opera di bolscevizzazione della Nuova Sardegna si è compiuta’. Guardo il plastico del silo e penso che il giornale debba prendere una netta posizione contro il progetto e a favore del ripristino delle tre valli sassaresi. Lo facciamo. La giunta comunale mi querela e i giornalisti della Nuova scioperano per tre giorni. Si trova una mediazione: il Comune avrà tre pagine di giornale per dire la sua, ma io potrò rispondere. Una battaglia durissima: tra i nemici avevo la massoneria che era molto impegnata nel settore delle costruzioni. Non ti dico quante persone hanno chiesto la mia testa”.
Anche una parte della redazione non fu tenera nei tuoi confronti.
“Sì, c’erano colleghi che ritenevano la cronaca di Sassari troppo squilibrata, non verso un partito, ma verso certe campagne di stampa”.
Dopo tanti anni, non pensi di aver esagerato in qualche occasione?
“Sulla Nuova facevo parlare tutti. Quando Gianfranco Fini è venuto a Sassari sono andato io a intervistarlo. Ma sulla vita della città il giornale si schierava. Per esempio: Sassari Estate è un fallimento? E noi titoliamo ‘Flop di Sassari Estate’. Insistevamo sulla questione morale, dando spazio a grandi personalità sassaresi come Giuseppe Melis Bassu, Manlio Brigaglia e tanti altri. Sulle idee per il futuro della città cercavo di collegarmi alle forze imprenditoriali sane e al mondo delle associazioni. Più di trent’anni fa parlavamo di salvare il centro storico…”.
Nel 1993 il salto in continente.
“Caporedattore al Centro di Pescara. Da lì sono passato alla Provincia Pavese, alla Nuova Ferrara, alla Gazzetta di Reggio. Infine caporedattore e inviato all’Agl, l’agenzia nazionale del Gruppo L’Espresso, fino alla pensione nel 2017”.

Da quel momento dieci libri in otto anni. Scherzando ma non troppo affermi di essere lo scrittore sardo che vende di più nell’isola.
“A oggi il conto delle copie supera le trentamila. Il grosso delle vendite, logicamente, è in Sardegna. Molti romanzi hanno superato le duemila copie, altri ci sono arrivati vicini. Le statistiche ufficiali dicono che soltanto il 3 per cento dei libri in Italia vale più di mille copie. Io a venderne mille ci metto una settimana”.
L’oggetto-libro sembra godere ancora di discreta salute, mentre i giornali cartacei continuano a perdere copie. Si estingueranno?
“Dal giornale cartaceo io mi aspetto lo scoop, la notizia che gli altri non danno non perché non ce l’abbiano, ma perché non la vogliono dare. Un pubblico c’è ancora, purtroppo i lettori dei giornali stanno invecchiando spaventosamente, me ne rendo conto andando in edicola tutti i giorni”.
I giovani sono disinformati?
“Non è detto. Spesso ti accorgi che le cose le sanno e che le notizie le hanno viste, il problema è che non si ricordano dove”.

Tu invece annoti tutto e ricordi tutto. Ma gli accademici qualche volta ti avranno pur bacchettato per imprecisioni o eccessi di disinvoltura.
“Sinceramente no. Con gli storici, gli archeologi e gli storici dell’arte ho rapporti ottimi, perché sanno che faccio un altro mestiere e valorizzo la loro competenza. In coda a ogni romanzo c’è sempre un’accurata bibliografia dove li cito”.
Rituali di scrittura?
“Disciplina, ma fino a un certo punto. Se devo fare la spesa vado a fare la spesa. Non ho orari fissi e può capitare che un giorno non scriva. La stesura è al computer, ma nella costruzione della trama e dei personaggi lavoro su taccuini pieni di appunti presi dai libri di storia”.
Sui social tieni un accurato diario delle tue presentazioni, ma in fondo parli poco di te.
“Niente vita privata: il partito mi ha insegnato la sobrietà sulle questioni personali. Parlo solo di libri e di politica. E della Torres”.

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Tutti i titoli pubblicati da Vindice Lecis:

La resa dei conti (Ariostea 2003), Togliatti deve morire (Robin, 2005), Da una parte della barricata (Robin, 2007), 1948, la rivoluzione impossibile. Ferrara e l’attentato a Togliatti (2G editrice, 2007), Golpe (Corbo, 2011), Buiakesos (Condaghes, 2012), Il condaghe segreto (Condaghes, 2013), Judikes (Condaghes, 2014), La voce della verità. Storia di Luigi Polano il comunista che beffò Mussolini (Nutrimenti, 2014), Rapidum (Condaghes, 2015), Le pietre di Nur (Robin, 2011, riedizione Condaghes 2016), L’infiltrato (Nutrimenti, 2016), Hospiton (Condaghes, 2017), Il nemico (Nutrimenti, 2018), Ospitone dux Barbarie (Condaghes, 2018), Ollolai e le case a un euro (Condaghes, 2018), Il visitatore (Nutrimenti, 2019), Il cacciatore di corsari (2020), La conquista (Condaghes, 2020), Lotta al terrore. Il Pci contro neofascisti e Br (Bordeaux, 2022), L’ombra del Sant’Uffizio (Nutrimenti, 2022), L’Alternos. Il romanzo della Sarda Rivoluzione (Condaghes, 2024).
Il racconto L’attentato che non ci fu nell’antologia Neronovecento (Cordero, 2013).
Ha curato nel 2024 la pubblicazione per Regione Sardegna-Sae La memoria della storia. 40 anni senza Berlinguer.