Foto credits: Angelo Trani
Di Marco Ledda
Si chiude. E il “Piano di volo SOLOtris” di Claudio Baglioni si congeda dal Comunale di Sassari, dopo gli “scali” a sud e a nord dell’Isola, nei quali il cantautore romano si è esibito in sei coinvolgenti concerti. Sei momenti dedicati al suo pubblico per la tournée più articolata di Baglioni che con 120 concerti terminerà a dicembre. Da solo. Un’esibizione in solitaria che non è affatto nuova per lui: sono stati tre i suoi recital che lo hanno visto unico protagonista della scena, Assolo (1986), Incanto (2001) e Diecidita (dal 2011 al 2013).

E chi dal suo primo Assolo a Sassari nel 1986, da quella calda serata estiva sul prato dell’Acquedotto, dove non c’era neppure un filo d’erba libero, i cori degli stadi erano Alè-Oò, e le pietre focaie degli accendini diventavano roventi, ha potuto assistere alle tre ore del concerto-racconto di Claudio Baglioni ha ritrovato molto di quella serata.
(La vita) adesso, invece, ci regala posti numerati ai concerti, cori negli stadi su cui è meglio sorvolare, e accendini ormai sostituiti dalle torce degli smartphone. Sarà perché il gas costa troppo di questi tempi. E perchè poi tutto, inevitabilmente, cambia.
Lui, no. Il cantautore romano resta uguale a sé stesso, plasma il racconto tracciando numerosi momenti della sua carriera e sceglie sempre la chiave giusta. Quella capace di aprire le porte – perché ogni singolo spettatore ne ha una sua – sul suo smisurato repertorio interpretato sul palco con sonorità differenti (classica, attuale e futuribile) accompagnate da tre modelli di pianoforte e tastiere. Per un Baglioni tridimensionale (musicalmente s’intende) che viaggia nel tempo senza fermarsi sin dal 1968, quando diciassettenne diede il là con i suoi primi successi a quella che si sarebbe rivelata una grande carriera.
E poi, le sue canzoni. Per cui, appare quasi superfluo pestare sulla tastiera. Sono quelle che hanno accompagnato un po’ tutti, che un po’ tutti conoscono a memoria, che un po’ tutti continuano e continueranno a cantare. Perché la memoria delle emozioni non è mai piena abbastanza, inconveniente in cui incappano invece, e spesso, gli smartphone.