Davide Ruiu in gara alle Olimpiadi di Tokyo

di Pier Luigi Rubattu

Sassari. Il sesto posto alle Olimpiadi di Tokyo nel 2021, a soli vent’anni. Il tatuaggio dei cinque cerchi per festeggiare. Il pensiero dritto ai Giochi del 2024, quelli della maturità atletica e delle grandi ambizioni. Ma a Parigi quest’estate Davide Ruiu non c’era.

La natura è stata generosa e perfida con il pesista sassarese: gli ha dato forza e velocità eccezionali insieme a ginocchia di cristallo che a un certo punto non ce l’hanno più fatta a reggere carichi di 127 chili nello strappo e 159 nello slancio, i record personali stabiliti da Davide a Tokyo.

Carichi che dovevano aumentare ancora, perché Ruiu e l’allenatore della nazionale, il nuorese Sebastiano Corbu, avevano programmato per Parigi il passaggio dalla categoria -61 kg (“Una faticaccia rientrare nel peso”, ricorda Davide) a quella dei -73, con un passaggio intermedio a -67. Quindi più muscoli, più chili da sollevare, più allenamenti, più tutto.

“Un giorno i medici mi hanno spiegato che per le ginocchia non c’era guarigione possibile – spiega Davide Ruiu -, soltanto una terapia conservativa per tenere a bada il dolore. Sì, avrei potuto gareggiare. No, non avrei più potuto spingere per arrivare a certi livelli”.

Così l’atleta dell’Esercito ha detto addio alla pedana senza neanche poter raccogliere gli ultimi applausi. Nella sua testa ha lasciato andar giù il bilanciere, e i dischi dei pesi hanno saltellato e rotolato per qualche centimetro prima di fermarsi definitivamente.

Il post-Tokyo è stato amaro per i tre atleti sassaresi che hanno partecipato alle Olimpiadi del 2021. Al marciatore Andrea Agrusti hanno tolto la 50 km dal programma dei Giochi di Parigi. La stagione del cestista Marco Spissu in Eurolega a Kazan si è interrotta sul più bello perché la Russia ha invaso l’Ucraina e la squadra è stata esclusa dalla competizione. La tua carriera, Davide, in pratica si è chiusa in Giappone. Come ti ripresenti sulle nuove pedane di una vita che non è più quella che ti aspettavi?
“Quand’è finita è finita. Devi fare ciò che la vita ti mette davanti. Non potevo più essere un atleta, sono rimasto nel gruppo sportivo dell’Esercito lavorando in caserma. Ho fatto il corso Aief (aiutante istruttore di educazione fisica) e sono in attesa del trasferimento da Roma a Sassari”.

Qual è esattamente il tuo guaio fisico?
“Un fatto congenito. Tendini troppo lunghi, rotule instabili. Speravo che quella fine non arrivasse, ma l’importante è sapere qual è il problema e che non c’è niente da fare. Ringrazio la Federazione che ha investito tanto su di me, con un’infinità di visite specialistiche e di terapie. E ringrazio il Centro Sportivo Esercito che in questi anni mi ha sempre sostenuto”.

Vuoi fare l’allenatore?
“Mi piacerebbe, ho collaborato per un periodo con la Federazione. Adesso spero di tornare a Sassari per continuare la carriera militare e anche per provare a iniziare quella da tecnico”.

Il sesto posto alle Olimpiadi ti aveva soddisfatto o speravi addirittura in una medaglia?
“Medaglia no, mi ero qualificato per Tokyo come ultimo del ranking. I problemi alle ginocchia c’erano, ci pensavo, ma stavo all’Olimpiade e non sapevo se mi sarebbe mai ricapitato… Sono entrato in pedana e ho fatto i miei record personali. A vent’anni, al debutto ai Giochi, mi sono trovato in mezzo ai ‘grandi’ e ho fatto la mia figura”.

Quanto e come ti allenavi?
“Dal 2017, quando sono arrivato in nazionale a 15 anni, mi ha seguito Sebastiano Corbu, un grandissimo allenatore che a Roma mi ha fatto anche da padre. Mi ha insegnato il valore dei sacrifici, il modo di lavorare in palestra. Allenamenti tutti i giorni, compresa la domenica. Sono arrivato a fare anche cinque sedute da un’ora-un’ora e mezza l’una, ovviamente con esercitazioni diverse”.

Un professionista.
“Quando entri nelle mani di Sebastiano non puoi essere altro che un professionista. Ti obbliga a diventarlo”.

Chi è stato il tuo primo allenatore?
Simone Tola alla Polisportiva Sassarese, società da cui in seguito sono passato alla Polaria Fiumicino e poi all’Esercito”.

Come eri capitato in palestra?
“Avevo 13 anni, un mio amico faceva sollevamento pesi e mi ha detto: ‘Prova’. In effetti sin da piccolo ero piuttosto forzuto. Ho capito subito che era lo sport adatto a me, qualsiasi cosa mi chiedessero mi veniva facile”.

Il tuo amico ha continuato?
“No, dopo un po’ ha smesso”.

Tu quante volte hai avuto la tentazione di abbandonare?
“Mai. A 15 anni non mi interessava fare il tipo di vita dei miei coetanei. A me piaceva sacrificarmi. Il pensiero di smettere mi è venuto ogni tanto per i problemi alle ginocchia. Ma appena stavo un po’ meglio mi motivavo per quando i dolori sarebbero aumentati”.

C’è stato un giorno in particolare in cui hai scoperto di essere fortissimo?
“Un anno e mezzo dopo aver iniziato a fare sollevamento pesi: ho vinto i campionati italiani e sentivo di avere molti margini. Ho pensato: ‘Questa è la mia strada e non c’è altro’. Mi sono dedicato completamente, trascurando anche la scuola”.

Trascurata quanto?
“Al diploma di ragioniere ci sono arrivato, nell’anno delle Olimpiadi”.

Quali sono le qualità più importanti per un pesista?
“Innanzitutto la testa: se non ce l’hai non sei un atleta e un agonista al cento per cento. Poi le qualità genetiche: senza quelle non vai da nessuna parte. C’è chi ha fibre più rapide, chi è meno veloce ma più elastico, i fattori da considerare sono tanti”.

Le tue fibre?
“Io avevo due qualità a mio favore: la mobilità e la rapidità. E mentalmente mi reputo abbastanza determinato”.

Passioni fuori dallo sport?
“Quand’ero in nazionale nessuna: il tempo libero lo passavo a rilassarmi e riposarmi. Da bambino impazzivo per i motori: avevo la moto da cross e giravo in campagna. Adesso ho ripreso, ho una Yamaha TTR. Sono anche arrivato alla macchina dei miei sogni, almeno tra quelle arrivabili: l’Audi A3, che mi piaceva sin da piccolino. Me la sono regalata dopo la qualificazione per Tokyo. E ho ricominciato ad accompagnare mio padre a caccia: non sparo, non ho il porto d’armi ma prima o poi voglio prenderlo”.

L’atleta che ammiri di più?
“Negli altri sport non saprei. Nei pesi ti dico sicuramente Sergio Massidda. Alle Olimpiadi di Parigi è stato sfortunato, ma andrà molto lontano. Era mio compagno di stanza in nazionale ed è anche mio padrino di cresima”.

Sei figlioccio di un coetaneo. Com’è andata?
“Dovevo fare la cresima per poter battezzare mia nipote, la figlia di mia sorella, e ho chiesto a Sergio di farmi da padrino. Ora non c’è soltanto una grande amicizia a legarci, ma qualcosa di più”.