Sassari. Lo zafferano è una spezia dalla quale, anticamente, si estraeva il colorante giallo per i tessuti: partendo da qui, dalla commistione tra il giallo e l’antico, Elisabetta, una produttrice Rai, decide di chiamare “Zafferano” una nuova serie televisiva dedicata ai cold case, i delitti irrisolti di decine di anni prima, chiedendo a Tiberio, suo vecchio amico, di scrivere il soggetto di una puntata basandosi su un omicidio avvenuto nel 1902 nel paese di lui, Chiaramonti.
È questa l’occasione da cui si sviluppa la storia contenuta nel romanzo “Zafferano” di Giampiero Muroni, edito da Il Maestrale con la collaborazione dell’agenzia letteraria Milkbar e fresco d’uscita in libreria.
Romanzo, sì, ma con la caratteristica di trarre origine da una storia vera: l’omicidio si è realmente verificato nel piccolo centro dell’Anglona agli inizi del secolo scorso e le ricostruzioni delle indagini, gli interrogatori, le perizie, i verbali presenti nel libro si fondano su documenti reali.
Certo, i nomi sono stati modificati e qualche particolare è stato aggiunto per rendere l’intreccio più avvincente, ma il fascicolo, che l’autore dichiara di aver fortuitamente ritrovato in un cassetto di una casa di famiglia, è la copia di quello redatto dalla guarnigione dei Carabinieri del Re nella caserma del paese, e il romanzo ne rende la vivacità seguendo le ipotesi e le tecniche investigative dei detective d’altri tempi.
Nonostante la vicenda che sta all’origine della trama sia sicuramente criminale, non si può dire però che “Zafferano” sia un romanzo giallo in senso stretto: mentre scrive il soggetto televisivo, infatti, il protagonista pare cercare di fare luce sul proprio presente più che sull’omicidio, i dubbi che lo assalgono in merito alle ipotesi delle indagini si sovrappongono a quelli relativi alle scelte compiute nella sua vita, fino a realizzare una curiosa simmetria tra gli accadimenti di un secolo prima e quelli del suo passato più recente.
Tiberio non è capace di sciogliere i nodi ingarbugliati del delitto che racconta, ma ripercorrere quei lontani eventi gli consente di ritornare sui legami intricati di cui è costellata la sua esistenza, le relazioni irrisolte, i rimpianti, i silenzi che non è riuscito a riempire di parole sincere.
L’indagine su un caso ormai troppo “freddo” non gli permetterà forse di scoprire ciò che è rimasto oscuro ai Carabinieri che se ne occuparono all’epoca, ma di riconoscere molti lati rimasti in ombra della propria vita, quello sì, e non è un risultato da poco.
Sullo sfondo resta una Sardegna assai poco bucolica e serena, piuttosto governata da passioni livide e avvelenate da un rancore miserabile, animate dall’invidia che un altro personaggio del romanzo, un vecchio archivista, definisce come «il peccato più grave», perché vuole la rovina altrui senza che si cerchi la fortuna per se stessi.
La Sardegna degli albori del XX secolo ne era intrisa, secondo quel che racconta il romanzo: e il colore dell’invidia tradizionalmente è il giallo, quello ocra, assai simile alla tonalità dello zafferano.