Berchidda. È stata una giornata ricca di eventi, quella di ieri, 13 agosto, nell’alveo della 37esima edizione del festival Time in Jazz. La mattina, la chiesa campestre di Santa Caterina, ha fatto da cornice al Living Coltrane Quartet (Stefano Cocco Cantini al sax, Ares Tavolazzi al contrabbasso, Francesco Maccianti al piano e Piero Borri alla batteria) che, insieme all’attrice Daniela Morozzi, hanno dato vita a un evento che ha visto al centro il noto sassofonista americano John Coltrane e il suo legame con Dio, in una sorta di parallelismo tra la potenza della musica e la potenza della fede in un essere supremo.
Nel pomeriggio, davanti al suggestivo Santuario della Madonna di Castro, a Oschiri, lo spettacolo di Furio di Castri. “Non potevamo fare questo concerto in un luogo diverso”, ha ironizzato Paolo Fresu. “Questa volta potrebbero farmi santo!”, ha ribattuto il contrabbassista. Il progetto, un tributo a Charles Mingus, uno dei maggiori interpreti del jazz del Novecento, è stato caratterizzato da melodie eleganti e sperimentali.
Si prosegue, dopo cena, con gli appuntamenti al centro di Berchidda, in Piazza del Popolo.
Il direttore artistico Paolo Fresu spiega l’importanza dell’ecosostenibilità ed elenca brevemente le attenzioni messe in atto per arginare gli impatti sull’ambiente di tutto ciò che gira attorno al festival, a partire dalla comunicazione per proseguire poi alla raccolta differenziata e all’illuminazione scelta per essere il meno impattante possibile. Il legame tra il consorzio Biorepack, presieduto da Marco Versari, proprio per questa scelta, si consolida nel corso del tempo. In più, ogni anno, il festival assegna il premio “Biorepack in Jazz”, destinato agli artisti ritenuti più visionari.
“Quest’anno il premio va a Frida Bollani Magoni, ma non abbiamo una motivazione: la vera motivazione è la sua musica”, spiega Fresu prima della consegna. “Il concept del premio si rifà al rapporto tra uomo e natura, e alla relazione tra musica e armonia. Nei concerti di Frida abbiamo visto un’energia gioiosa”, dicono i realizzatori della scultura da viaggio realizzata appositamente per la giovane pianista.
Visibilmente emozionata, la figlia d’arte (Frida è figlia del noto pianista Stefano Bollani e della cantante Petra Magoni), sale sul palco e ringrazia: “Io non sono una jazzista, e una parte di me si chiede come mai sono qui – afferma – ma io vi porterò in un Time in Pop”.
Applausi di incoraggiamento danno il via al primo pezzo, Seventeen. “L’unico brano da me scritto e musicato che si può definire pop jazz”, precisa Frida Bollani Magoni. L’inizio promette bene: l’emozione è tanta, ma la scelta d’apertura sembra buona. L’artista prova a stemperare la tensione – è chiaro che sente la responsabilità di solcare un palco così importante – raccontando brevi aneddoti riguardanti alcuni problemini di salute che l’hanno colpita in questi giorni. “Sono qui completamente sorda a un orecchio, e dopo essere stata al pronto soccorso. Lì, il medico, mi ha chiesto, con forte accento sardo, se fossi la figlia del pianista, Stefano”. E qui ne approfitta per scandire integralmente le parole del medico, insistendo sulle doppie, in pieno stile “Lucio Salis”.
L’aulica atmosfera del principale palco del Time in Jazz viene inevitabilmente smorzata. Viene da chiedersi che accento si aspettasse di sentire, in un medico del pronto soccorso che opera in Sardegna. Ma la ragazza è giovane, perciò la battuta non sense viene archiviata in attesa del resto del concerto. L’aspettativa è alta, forse troppo alta. La scelta di far esibire una ragazza così giovane e visibilmente ancora acerba – sullo stesso palco su cui si è esibito Kenny Garrett poche ore prima, per intenderci – non risulta propriamente azzeccata, per usare un eufemismo.
I brani che seguono tradiscono le aspettative nate con Seventeen (composto a 17 anni); si va da Dangerous, cavallo di battaglia di Britney Spears, che fa rimpiangere le bionde trecce dell’icona pop anni Novanta, a un’interpretazione karaokica di Don’t Know Why di Norah Jones.
Frida, in ogni caso, si sente a casa: lo certifica anche la presenza del fonico. “È mio zio”, spiega candidamente. Ma il punto più basso lo si raggiunge quando Frida Bollani Magoni annuncia: “Sto per suonare la tromba ma senza saperla suonare, davanti a Paolo Fresu, grazie a questo strumento, il kazoo… che ha origini sarde, forse…”
Davanti al pubblico del Time in Jazz si materializzano all’improvviso le note della celebre Take Five, composizione strumentale jazz di Paul Desmond, ma qualcosa stride. Il suono stride, il brano stride, il contesto stesso stride tutto attorno. I pochi, timidi applausi, certificano il fallimentare tentativo di esecuzione del brano. Si va avanti così, per minuti che paiono non passare mai; qualcuno abbandona la postazione, gli applausi si fanno via via più dolci, ospitali, accoglienti e… consolatori.
Frida Bollani Magoni, prima di salutare, riceve in dono un bouquet di fiori particolari: al centro è stata inserita una fragranza di pesca, per rendere l’omaggio il più possibile personalizzato e gradito alla musicista, affetta sin dalla nascita da ipovisione.
La serata prosegue con il trombettista Theo Croker, nipote del leggendario Doc Cheatham, (anch’egli trombettista), accompagnato da Mike King al pianoforte e alle tastiere, da Eric Wheeler al basso e da Jaylen Petinaud alla batteria. “Uno degli artisti più visionari”, annuncia Paolo Fresu. Lo aveva detto anche una mezz’ora fa, è vero, ma questa volta le attese non vengono disilluse. Lo spettacolo è un concentrato di stili ed effetti elettronici dirompenti; una sorta di dark jazz psichedelico.
Le luci sul palco scandiscono magistralmente un’esibizione dove è possibile intravedere riecheggi di colonne sonore alla Love Boat – famosissimo telefilm americano degli anni Ottanta – e, anche, sprazzi di musiche che fanno tornare alle orecchie i suoni tipici degli Orb – gruppo dedito alla musica elettronica fra i più importanti per la diffusione dell’ambient house –. Come sia possibile fondere insieme sonorità così differenti, è un mistero che solo l’arte può spiegare, e Theo Croker è uno dei più interessanti trombettisti jazz di questi tempi: nominato ai Grammy più volte, è anche produttore e influencer. Sarà per questo che è in grado di miscelare jazz mistico, funk, elettronica e hip-hop.
La musica non è che una parte dello spettacolo: sul palco va in scena uno spettacolo a tutto tondo dove la spiritualità del suono si unisce ai giochi di luci, creando uno scenario quasi spaziale. Quello che non si è sentito, da un certo momento in poi, lo si immagina: si entra così in un loop sonoro capace di accompagnare il pubblico nelle sensazioni più profonde della notte, unite a un ritmo martellante che lascia spazio alla purezza e alla mistica. Si ritorna al tema: A Love Supreme.
Daniela Piras